La riflessione che ci muove e attraversa come rete anticarceraria verso il B-Side Pride sabato 27 giugno 2020 in piazza Nettuno dalle 13.30 a Bologna.
Più info qui:
https://bsidepride.noblogs.org/
https://marciona.noblogs.org/post/2020/06/22/verso-un-pride-transfemminista-queer/
TRANSFEMMINISMO E LOTTA ANTICARCERARIA
In una civiltà ultra-capitalista dove la giustizia è nelle mani di chi detiene i maggiori privilegi economici, la questione del carcere, ingranaggio centrale del modello eteropatriarcale societario imposto e mantenuto, non può che essere una questione che riguarda tutte e tutti noi.
Nelle carceri ci sono prevalentemente uomini ma questo dato non deve sorprendere, lo Stato patriarcale ha per le donne e le soggettività non cisgender tutta una specifica rete di oppressioni, gabbie e meccanismi di disciplinamento che permeano l’intero arco e contesti di vita dall’infanzia all’età adulta. Ci sono già il marito, la famiglia, il misconoscimento costante, le oppressioni, le violenze, la psichiatria…
Nonostante ciò le prime a scontrarsi con la repressione carceraria sono proprio le donne anche quando il carcere non lo vivono direttamente sulla propria pelle. Donne, madri, mogli, sorelle, cui rimane tutto il peso della famiglia, dei figli, oltre che il compito di sostenere fratelli, compagnx, mariti e padri detenuti, con lo sfinimento che implicano le visite, il pregiudizio della società, della famiglia, dei vicini, le lunghe attese, i controlli e le ispezioni corporali, gli interminabili viaggi di andata e ritorno, le spese sistematiche ed elevate, la perdita della propria vita privata, dei propri sogni e progetti, del proprio lavoro.
E’ ormai evidente come il carcere non solo sia risultato fallimentare nel proteggere le persone e le comunità dalle violenze e dalle oppressioni, ma come sia in verità un ingranaggio centrale nel riprodurle sulle classi subalterne, non solo su uomini migranti e poveri, ma anche e soprattutto sulle donne (cisgender e trans), gli uomini trans, le persone di genere non binario e/o intersessuali.
Chi subisce una violenza e si rivolge al sistema legale non trova protezione alcuna. A volte la polizia allontana l’aggressore per alcuni giorni ma ciò non ferma la violenza. A volte i tribunali emettono un’ordinanza restrittiva, un pezzo di carta che l’aggressore palesemente ignora. A volte la polizia non fa nulla. A volte l’aggressore fa parte della polizia stessa.
Il carcere ha fallito nel proteggere dalla violenza poichè perpetua il ciclo della violenza piuttosto che interromperlo.
Rinchiudere un partner violento può fermare la violenza soltanto temporaneamente, ma non affronta il problema alla radice e crea altre forme di violenza e di abuso.
Lo stesso sistema legale che non è riuscito a proteggere le persone come ‘vittime’, le ha poi punite per essere sopravvissute alle aggressioni: numerose vittime di violenza domestica sono incarcerate per essersi difese.
Nessuno sa quante sono le soggettività che hanno subito violenza dietro le sbarre perché le forze dell’ordine, delegate dalla collettività alla ‘sicurezza’, non sono riuscite a garantire la loro protezione.
Le sopravvissute alla violenza tra le mura domestiche piuttosto che sui luoghi di lavoro o per strada sono spesso ritraumatizzate dalla vita in carcere, in modo particolare quando vengono sottoposte alle aggressioni, alle mancanza di cure mediche, all’isolamento o alla separazione dalle proprie famiglie. La violenza subita all’interno delle mura domestiche si riproduce con la violenza dell’esperienza in prigione.
In carcere le donne (cisgender e trans), gli uomini trans, le persone di genere non binario e intersessuali reclusx soffrono continui abusi sessuali e maltrattamenti sia per mano di altri detenuti, che da parte delle forze dell’ordine o per colpa delle umilianti pratiche quotidiane come la perquisizione corporale, vissuta da molte come forma di stupro.
Le persone transessuali sono tra le comunità più criminalizzate e vulnerabili in carcere: «Le persone transgender non entrano nella classificazione binaria uomo/donna che il carcere stesso produce e consolida socialmente» sottolinea Angela Davis.
Persone queer, trans e gender-variant, proprio perché visibili nella loro differenza di genere, hanno difficoltà nel trovare lavoro, subiscono allontanamenti da parte delle famiglie, persecuzioni, aggressioni, nelle scuole, per strada, che portano ad esclusione ed emarginazione, aumentando la loro vulnerabilità e il rischio di incriminazione.
Una volta che le leggi repressive entrano in vigore, il pregiudizio influenza ogni passaggio del sistema giudiziario, aumentando la probabilità che una persona di genere non binario sia fermata dalla polizia, perquisita, arrestata, accusata, condannata, e che sconti un periodo di carcere.
La detenzione risulta inevitabilmente discriminatoria per queste soggettività.
Persone trans e queer oltre a vedersi negato un adeguato percorso medico sia per quanto riguarda l’operazione chirurgica che per le cure ormonali sono ad alto rischio di aggressioni sessuali e abusi in carcere, in commissariato e nei centri di permanenza temporanea, non-luoghi dove spesso vengono richieste prestazioni sessuali in cambio di “protezione”.
In alcune carceri vi sono sezioni dedicate all’interno degli istituti maschili mentre in altre sono adiacenti alle sezioni femminili. In altre carceri invece le persone transessuali e transgender vengono inserite nei reparti precauzionali insieme ai sex offenders, ai collaboratori di giustizia e agli ex appartenenti alle Forze dell’ordine.
Anche le sex-worker subiscono la repressione del sistema giudiziario e sono soggette alle stesse vulnerabilità.
Con la ‘lotta al degrado’ e all’immigrazione irregolare le città hanno imparato subito ad applicare il Daspo urbano con l’obiettivo di riportare il ‘decoro’ nelle strade e allontanare persone sgradite alla collettività: diverse sex worker sarebbero state allontanate con questo sistema.
Le istituzioni hanno il potere di emanare facilmente il daspo urbano anche a chi viene sorpreso in strada con loro. La criminalizzazione dei clienti rientra appieno nel sistema di vittimizzazione e alienazione delle lavoratrici del sesso, considerate tutte persone da salvare, cui viene negata l’autodeterminazione della propria esistenza e che, oltre a subire lo stigma che colpisce chi lavora nel settore del sesso, ora rischiano ulteriore emarginazione a causa delle politiche securitarie sempre piu dure.
L’isolamento dei luoghi dove sono spinte le lavoratrici le rende inoltre più facilmente soggette a controllo e violenze da parte di polizia e clienti.
Come rete anticarceraria siamo qui a ribadire come il sistema penitenziario e il carcere siano l’asse portante del controllo patriarcale attraverso cui si perpetra la riduzione strumentale e svilente delle persone a funzioni di profitto. Una macchina repressiva sempre più specializzata in ogni luogo che zittisce e neutralizza le contraddizioni sociali prodotte dal capitalismo, rinchiudendo e castigando quelle soggettività che queste contraddizioni esprimono e subiscono sottoforma di molteplici oppressioni.
Pensare che il carcere sia necessario non è nient’altro che quel che ci hanno fatto credere. Dobbiamo ricercare una nuova logica, diversa da quella imposta dal sistema eteropatriarcale.
Il giustizialismo prescinde dalle cause e considera i crimini esclusiva responsabilità delle persone che li commettono, per cui le uniche contromisure che si adottano in merito sono basate sul castigo.
Il punire individualmente e nella maniera più dura, si scontra frontalmente con l’obiettivo di lavorare a intersezioni che agiscano nei conflitti sociali in maniera proficua e vitale.
Se parliamo della violenza maschilista come una serie di problemi individuali scollegati fra loro otterremo soltanto l’invisibilizzazione della loro reale causa: la struttura etero patriarcale.
Combattere per un mondo oltre il carcere, dove siamo tutti e tutte libere dalla violenza, dalla povertà, dal razzismo, dagli abusi e da ogni forma di oppressione, non può prescindere dalla riflessione transfemminista.
Per riprendere la Davis, fervente abolizionista del sistema carceraio, più che porre l’accento su chi perpetra la violenza, bisognerebbe interrogarsi sulla violenza come istituzione, sull’istituzionalizzazione dei meccanismi di violenza e sulle discriminazioni di genere che le istituzioni incarnano tramite l’intervento paternalista e patriarcale.
La violenza di genere non e’ un problema di ordine pubblico, per questo riteniamo importante promuovere e sostenere tutte le attività che mirino a stravolgere in modo radicale e nel profondo la cultura patriarcale e machista che ancora oggi tiene in piedi questo sistema basato sullo sfruttamento che si riproduce nelle relazioni individuali e collettive.
E’ necessaria una critica integrale e radicale alle fondamenta della violenza e dell’oppressione razziale, di classe e di genere su cui si appoggiano le nostre società, e con queste le carceri. Ed è proprio il rifuto di ogni binarismo che oggi ci invita alla ricerca di formule nuove per esprimere i rapporti di forza e oppressione e destituire poteri e privilegi.
Come rete anticarceraria crediamo sia importante individuare convergenze e intersezioni che possano farci riflettere insieme e sviluppare pratiche per prevenire e affrontare il problema della violenza, contro le carceri e contro il dominio patriarcale, di qualsiasi genere.
Rete bolognese di iniziativa anticarceraria